IL CONFINE TRA PSICHIATRIA E PSICOTERAPIA

Arduo mi pare il compito di cercare di illustrare il confine tra cultura psichiatrica e cultura psicoterapica. Tenterò di trattarlo comunque partendo dal punto di vista della mia esperienza personale di medico che ha lavorato per cinque anni in un ambulatorio di psichiatria dove mi sono occupato sia di problemi di emergenza medica che di attività riabilitative che di psicoterapia psicanalitica, avendo acquisito una formazione in psicoterapia psicanalitica di tipo relazionale.

Come introduzione vorrei fare un breve escursus storico sulle origini delle due discipline per tentare di differenziarle. Il termine psichiatria è stato coniato in epoca illuminista per designare quella branca della medicina che si occupava delle malattie mentali. Già in epoca antica prima i Greci e poi i Romani avevano definito alcune manifestazioni come la mania, la melanconia etc. come delle malattie, delle “insanie” della mente, delle alterazioni dell’intelletto. Successivamente nel medioevo e nel Rinascimento la demonologia indicò nei malati di mente degli individui posseduti dal demonio, di cui le streghe erano una perfetto esempio.
Ci volle molto tempo affinché le malattie mentali venissero viste come delle patologie vere e proprie che riguardavano l’intelletto piuttosto che delle manifestazioni demoniache.
Fù Pinel nel 1700 il primo medico a porre le basi razionali per un trattamento dei malati di mente. Successivamente Esquirol agli inizi del 1800 riuscì a pubblicare una prima distinzione nosografica tra malati di mente ed insufficienti mentali, cioè tra coloro che da uno stato di normalità erano passati alla malattia psichica e coloro che avevano una deficienza dalla nascita. Quindi questo fù il primo tentativo di creare una classificazione delle malattie mentali. In seguito in base all’osservazione ed alla considerazione che si trattava di manifestazioni di vere e proprie patologie mentali si adottò anche negli studi psichiatrici l’osservazione scientifica ed il metodo anatomo-patologico al fine di riconoscere delle cause organiche di questi disturbi. Nel 1800 su questa impostazione di derivazione illuministica si innestò l’opera di Kraepelin che risultò essere un’opera descrittiva basata sulla classificazione delle malattie mentali in base ai sintomi ed alle manifestazioni presentate dai pazienti. Sulla base di questo metodo descrittivo di Kraepelin nasce la psichiatria clinica che fornisce uno schema indispensabile alla diagnosi, alla prognosi ed al trattamento dei disturbi mentali. Verso la fine del secolo alla interpretazione delle malattie mentali come espressione di un danno organico nacque e si fece strada l’idea che la malattia mentale potesse essere una malattia della psiche grazie principalmente all’opera di Freud . Il concetto di malattia viene espresso come un processo all’interno del quale è necessario comprendere i meccanismi psichici su cui si sviluppa la patologia. Un’altra importante scoperta che ha portato ad un superamento della teoria Kraepeliniana fù l’importanza data dagli psichiatri di formazione psicanalitica ai fattori sociali ed all’ambiente nello sviluppo di patologie psichiche. Quindi alla cultura medica basata sull’osservazione scientifica oggettivante che ricercava le cause del difetto organico presente nel paziente si contrappose una visione psicodinamica in cui il malessere potesse essere legato a conflitti o traumi psichici. Ancora oggi le due culture sono fortemente presenti ed influenzanti vari modelli di trattamento della malattia mentale. L’attività da me svolta all’interno dei servizi psichiatrici consisteva in consulenze Dea, consulenze nei reparti, consulenze nelle case di riposo per anziani, visite ambulatoriali per patologie varie, attività a valenza riabilitativa al Centro Diurno. La cultura del servizio psichiatrico in cui ho lavorato era una cultura fortemente medicalizzata che risentiva della impostazione della psichiatria di derivazione kraepeliniana con l’attività impostata sulla diagnosi, sulla prognosi e sul trattamento farmacologico. Tale impostazione di tipo oggettivante faceva sì che il medico fosse l’unico depositario del sapere ed il paziente colui che veniva fatto oggetto delle cure svolgendo una funzione per lo piu’ passiva. Il percorso terapeutico veniva stabilito dal medico secondo quelli che erano i dettami della teoria e la diagnosi di partenza. La prognosi dava indicazioni su quello che sarebbe stato poi l’andamento della malattia. Questa prospettiva portava con sé a mio parere numerosi rischi e limiti, tra i quali quello di prendersi cura della patologia, del difetto organico curando il cervello (un organo )allo stesso modo in cui si cura il fegato. Inoltre il porre diagnosi di una patologia grave come ad esempio la schizofrenia induceva spesso negli operatori un senso di impotenza dato dall’aspettativa che la guarigione fosse difficile e ci si attendesse una evoluzione verso la cronicizzazione. Questo in una visione statica in cui tutti “gli schizofrenici”erano uguali dal momento che venivano diagnosticati per una stessa patologia considerata grave e difficilmente guaribile. Questo creava negli operatori un senso di impotenza e demotivazione ad occuparsi di tale paziente schizofrenico dal momento che l’aspettativa di una “guarigione” era ridotta. Altro rischio dovuto a questa impostazione culturale basata sulla diagnosi medica di malattia era ed è quello di identificare il malato con la malattia ( alle volte per indicare Giovanni, Alberto ,etc. i pazienti vengono definiti lo schizofrenico, il depresso, il maniacale). In questo modo la persona con le sue emozioni, i suoi vissuti, i suoi problemi rimangono sullo sfondo, non ci si prende cura del paziente ma della sua malattia come se si trattasse di una patologia organica derivante da una alterazione fisica organica in una delle varie strutture o dei sistemi corporei, cerebrale, endocrino, etc. Questa impostazione vede necessariamente il paziente come l’oggetto di un trattamento, di un percorso di cura secondo un modello in cui il medico conosce le risposte e possiede la competenza sulla patologia del paziente. Il paziente non deve fare niente se non attenersi alle prescrizioni del medico, è in pratica l’oggetto della cura. Questo metodo agisce quasi come” un tappo “ si può dire che chiude qualsiasi possibilità di apertura, di scambio del paziente con il terapeuta. Il paziente quindi non è il soggetto della propria cura. Non viene richiesta alcuna motivazione o coinvolgimento al trattamento ma unicamente una delega ed una adesione ad una prescrizione terapeutica con l’aspettativa e la promessa di una guarigione. Tale atteggiamento produce una forma di dipendenza nel paziente senza un’evoluzione in termini di emancipazione. Inoltre il paziente corre appunto il rischio di investire di aspettative miracolistiche i farmaci ed il curante, mantenendo questo atteggiamento passivo e di dipendenza. Quella che è una ricerca in psicoterapia di un benessere personale e l’acquisizione di capacità relazionali è sostituito in quest’ottica da una sostanza che funge da stampella, da sostegno. La malattia e non le disfunzioni relazionali del paziente sono quindi l’obiettivo della cura. La cultura psicoterapica di derivazione psicanalitica prevede al contrario una impostazione secondo cui il terapeuta ha il ruolo di colui che interroga il paziente. Le risposte riguardo alle motivazioni ed ai meccanismi del proprio malessere stanno nel paziente. La responsabilità della guarigione è suddivisa al cinquanta per cento. Inoltre la relazione “catalizza” il cambiamento. Si instaura così con il terapeuta una rapporto ed una storia personali finalizzati alla comprensioni delle dinamiche relazionali del paziente ed alla acquisizione da parte di quest’ultimo di nuove capacità e maggiore autonomia. In quest’ottica la terapia farmacologica può essere proposta come un aiuto per attenuare e ridurre il malessere ma per cancellarlo. Il tentativo di interpretare il ruolo dello psichiatra secondo i principi appresi dalla mia formazione relazionale ha fatto sì che spesso mi scontrassi con le convinzioni e con le resistenze alla apertura ed al confronto presenti in queste strutture istituzionali. Mi guidavano nella mia pratica la convinzione che la relazione, il dialogo e la funzione interrogante del terapeuta oltre che il principio della responsabilità del paziente potessero essere applicate anche nella pratica psichiatrica all’interno delle istituzioni. Ogni qualvolta fosse possibile tentavo di applicare il metodo nelle piu’ svariate situazioni: nell’attività al pronto soccorso, in quella ambulatoriale, nelle consulenze nelle case di riposo qualora i pazienti fossero in condizioni di lucidità tale da permettermi un approccio relazionale. Qualora invece fossero incapaci di intendere e volere mi limitavo alla necessaria somministrazione farmacologica. Il tentativo era sempre quello di aiutare i pazienti a vedere il loro disturbo come un malessere derivante da una difficoltà nel tradurre i propri bisogni in desideri e conseguentemente nella formulazione di una domanda che potesse essere soddisfatta, prima di tutto una domanda d’aiuto che potesse essere trattata da un punto di vista psicoterapico. Tenterò ora di presentare alcuni esempi per tentare di spiegare questi concetti. Margherita una madre psicotica a cui sono stati tolti i figli dal tribunale , che tenta di vivere da sola in un suo appartamento. È sofferente spesso delirante, a volte dice di essere un medico, uno psicanalista, a volte si mette nel mio studio dicendo di volermi sostituire. Io glielo lascio fare. Viene all’ambulatorio una volta al mese per fare la terapia depot con Haldol decanoato, spesso tende a saltare la somministrazione farmacologica si chiude in se stessa ed in casa per lunghi periodi. Periodi di silenzio interrotti solo da telefonate fatte al servizio per chiedere qualche cosa che le venga portato a domicilio, che la si vada a trovare, lei non ha il denaro per il pullman, dice. Vado a trovarla, mi interesso a lei ed alla sua storia, cerco di instaurare una relazione senza chiederle niente in cambio. Vorrei che venisse in ambulatorio per parlare, per frequentare il Centro Diurno, ma mi trattengo. So che è troppo presto. Con il tempo instauriamo una relazione forte, lei si fida, continua a delirare ma frequenta il centro diurno e fa per un breve periodo dei colloqui con me. Riusciamo a creare una rete sociale coinvolgendo il sindaco e l’assistente sociale del comune. Accetta che un’infermiera vada a trovarla ed esca con lei a fare la spesa. I ricoveri in Spdc(Reparto Psichiatrico) si riducono drasticamente. Qualche volta riesce a rivedere le figlie in affido alla sorella senza troppi conflitti con la stessa. Il ricovero ed i farmaci non sono piu’ l’unica risposta del servizio. Altro esempio è l’esperienza di un gruppo di arte-terapia. L’esperienza del gruppo si è innestato nel tessuto culturale del servizio psichiatrico fatto di gruppi basati su criteri omogeneizzanti di accorpamento dei pazienti dettati dall’atteggiamento diagnostico per cui gli psicotici vanno con gli psicotici , i depressi con i depressi, i nevrotici con i nevrotici. La scommessa era quella di riunire sotto la consulenza di un maestro di pittura tutti i pazienti che “ci stavano”, che avevano dimostrato interesse per il progetto. Vennero riuniti sia pazienti fortemente compromessi nelle funzioni relazionali e comunicative che pazienti affetti da depressione o varie problematiche relazionali minori. Tale gruppo si riuniva una volta a settimana con la presenza di una psicologa e del sottoscritto oltre che del pittore conduttore. L’esperienza è proseguita per tre anni con risultati soddisfacenti sia dal punto di vista della produzione artistica che della crescita personale di ciascun individuo che delle capacità di integrazione tra i componenti e quidi della formazione di un gruppo che condivideva anche momenti di rilassatezza nel parco della biblioteca dove era lo studio, oppure in alcune gite organizzate con il fine di recarsi a vedere mostre di artisti conosciuti. Altra storia quella di Sara paziente gravemente malata, ogni settimana viene portata al Pronto Soccorso dopo l’ennesimo tentato suicidio. La storia inizia un giorno di circa tre anni fà quando vengo chiamato al Pronto soccorso in quanto una giovane donna ha tentato il suicidio, così mi dicono. “Venga presto dottore, è urgente”. Mi reco al dea celermente e una volta arrivato mi trovo una donna con le braccia tutte fasciate di garza bianca. Come mi avvicino mi si fa incontro l’infermiera che mi dice che si è tagliata le vene ed è stata molto vicina alla morte. Chiedo di poterle parlare in una stanza a parte e vengo accontentato. S. mi racconta un po’ la sua storia ed io sto ad ascoltarla senza parlare. Dopo circa un’ora la lascio chiedendole se se la sente di tornare a casa e se vuole che ci rivediamo. Decide per il sì. Ci rivediamo il giorno dopo presso l’ambulatorio psichiatrico e poi varie volte alternando visite a defezioni. Nel frattempo tenta il suicidio con una frequenza quasi settimanale. La vedo piu’ spesso al P.S. che nel mio studio per un periodo. Viene ricoverata varie volte in Reparto Psichiatrico da altri colleghi. Dopo qualche mese le sedute diventano piu’ regolari , con frequenza settimanale e S. lentamente riduce i tentativi di suicidio e gli atti autolesionistici, come bruciarsi le braccia con le sigarette, fino a smettere del tutto dopo quasi tre anni. La creazione di una relazione terapeutica ha provocato un cambiamento, ha funto da catalizzatore per una modificazione della impulsività autolesionista della paziente verso una forma di riconoscimento del proprio malessere. La terapia farmacologica è stata gestita da me dal momento che era già impostata, ma è stata proposta alla paziente in una dimensione di aiuto, di sostegno temporaneo, non di soluzione unica e miracolistica. E soprattutto non di sostituzione alla acquisizione di capacità di autonomia ottenibili, secondo me, attraverso la comprensione del proprio malessere. Nell’idea pertanto che la terapia psicofarmacologica riduca il malessere e lo contenga ma non lo risolva.

 

 
 


Dott. Fabrizio Reali - psichiatra, psicoanalista